Oggi possiamo affermare ufficialmente che Leqembi, nome commerciale di lecanemab, è una nuova freccia all’arco dei nostri medici nella lotta all’Alzheimer. Si tratta di un anticorpo monoclonale, recentemente approvato a livello europeo, per il trattamento di pazienti adulti con malattia di Alzheimer in fase iniziale ovvero in presenza di un disturbo cognitivo lieve o demenza lieve, e con conferma della presenza di patologia amiloide.
Non è una cura, ma una possibile opzione terapeutica che si propone di rallentare la progressione del declino cognitivo, agendo sul meccanismo biologico della beta-amiloide, una delle proteine implicate nella malattia di Alzheimer. La somministrazione avviene per infusione endovenosa ogni due settimane e richiede un sistema di sorveglianza clinica molto attento.
I dati clinici provengono da uno studio che ha coinvolto oltre 1.700 pazienti e ha mostrato una riduzione del declino cognitivo e funzionale modesta ma sufficiente a essere statisticamente rilevante. Di conseguenza i pazienti trattati con questo farmaco hanno mantenuto più a lungo la loro autonomia e funzioni cognitive rispetto a chi ha ricevuto placebo. Tuttavia, l’impatto nella vita quotidiana del paziente e dei caregiver resta ancora da verificare in contesti reali, fuori dagli ambienti controllati delle sperimentazioni.
Come ogni trattamento innovativo, non è privo di rischi. Il più rilevante è rappresentato dalle cosiddette ARIA – anomalie di imaging legate all’amiloide – che possono includere edemi cerebrali e microemorragie. Questi eventi, nella maggior parte dei casi, sono asintomatici per cui è necessario un attento monitoraggio del paziente con risonanza magnetica. Inoltre, prima dell’inizio del trattamento è necessario valutare il profilo genetico del paziente (allele ApoE ε4), poiché chi è omozigote presenta un rischio più alto di effetti avversi gravi.
A fronte della buona notizia, si pone però una questione cruciale: il nostro sistema sanitario è pronto a gestire questa novità?
Attualmente, secondo
una valutazione dell’Istituto Superiore di Sanità,
solo il 10% dei CDCD – i Centri per i Disturbi Cognitivi e le Demenze – sarebbe in grado di gestire la complessità clinica, diagnostica e logistica che il trattamento con Leqembi richiede.
In risposta a questa sfida,
il Tavolo Demenze sta per avviare i lavori su un nuovo documento per il governo clinico della demenza, che conterrà indicazioni specifiche su come i CDCD dovranno essere riorganizzati e potenziati: dagli strumenti diagnostici, al personale formato per la somministrazione e il follow-up del trattamento.
Inoltre, progetti nazionali come INTERCEPTOR stanno offrendo dati preziosi per identificare quali sottogruppi di popolazione possano davvero trarre beneficio dal trattamento, aiutando così a evitare l’uso inappropriato o inefficace del farmaco.
In sintesi, Leqembi rappresenta una novità importante, ma non risolutiva.
È un primo passo nella direzione di una medicina più mirata e biologicamente fondata, ma non possiamo permetterci di sopravvalutarne gli effetti né di sottovalutare la complessità organizzativa che comporta.
Senza un sistema capace di intercettare precocemente, accompagnare, monitorare e informare correttamente i pazienti, il rischio concreto è che questa innovazione rimanga appannaggio di pochi centri altamente specializzati, lasciando indietro gran parte della popolazione.