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Hans Spinnler scrive...


Cara Gabriella,
ti scrivo forte del fatto che da più di un decennio mi dedico alla ricerca (neuropsicologica) sulle malattie del cervello che provocano demenza, in particolare mi sono dedicato alla malattia di Alzheimer. Non ti scrivo, quindi, partendo da una posizione soltanto ideologica, ma soprattutto interpretando un’esigenza molto pragmatica e a diffusione crescente.
Mi rivolgo a te nella tua veste di rappresentante di spicco dell’associazionismo internazionale relativo alla malattia di Alzheimer, per fare una proposta, anzi una richiesta. La richiesta è di farti portavoce di una proposta non facile, perché qui da noi assolutamente inusuale (quindi, a prima vista, controcorrente), volta a rendere di comune dominio un bisogno particolare della ricerca scientifica sulle demenze. Sempre sull’onda della captatio benevolentiae, mi corre aulicamente l’obbligo di sottolineare ai tuoi lettori l’ovvietà che la ricerca scientifica, oltre che onorevolmente fine a se stessa ovvero volta a produrre null’altro che della conoscenza razionale, è anche l’unico possibile investimento affinché l’attualmente predominante dimensione assistenziale, conseguente alla quasi irrilevante curabilità dei pazienti, possa in un futuro incertamente lontano (o, forse, vicino) divenire marginale nel trattamento delle demenze. Veniamo alla richiesta. Vorrei che tu e l’associazionismo di malattia - nella richezza e complessità delle sue articolazioni anche internazionali - vi facciate interpreti presso le famiglie dei pazienti che la ricerca a volte ha dei bisogni che esulano dalla solita e sbandierata geremiade delle poche risorse finanziarie. Il soddisfacimento del bisogno a cui vado alludendo è in prima istanza nelle mani e nel pensiero delle famiglie dei pazienti dementi. Mi riferisco alla donazione in vita, ovviamente del tutto gratuita, dell’encefalo del paziente da attuarsi quando egli sarà appena deceduto, al fine degli studi correlativi tra quadro clinico-neuropsicologico e quadro istopatologico ed istochimico, studi direttamente attinenti al cruciale problema dell’accuratezza diagnostica. Trattasi di atto formale di natura giuridica, affine ai consensi informati della medicina clinica, e in ogni momemto revocabile. Se oggidì l’errore diagostico tra demenza di Alzheimer e manifestazioni riferibili alla nebulosa delle demenze vascolari si è andato nettamente ridimensionando, è giunta, invece, alla massima consapevolezza la grande difficoltà a diagnosticare in vita, clinicamente e neuropsicologicamente, le molteplici forme di "demenza degenerativa corticale non-Alzheimer". Nel novero delle demenze degenerative, esse sembrano rappresentare un’aliquota compresa tra il 10 ed il 20%. Delle loro caratteristiche generali (cliniche, evolutive, biochimiche, genetiche, neuropsicologiche, etc.) si sa relativamente poco e dell’accuratezza diagnostica formulata in vivo quasi niente. La loro sensibilità ai farmaci anticolinesterasici (in vendita) e ad altre molecole (in istudio) a fini terapeutici è sconosciuta. Nelle grandi casistiche raccolte a fini di studio (ad esempio, anche dei farmaci) queste demenze vengono tout-court rubricate tra quelle alzheimeriane e, se si prendono per buoni i dati provvisori che circolano, esse inseriscono nelle casistiche quasi un quinto di diagnosi nosografiche errate, un valore vicino ai successi transitori degli anticolinesterasici in vendita.
Cosa ti chiedo, dunque, con questa lettera troppo lunga?
Di trasmettere la richiesta della donazione dell’encefalo a fini scientifici agli affiliati dell’Associazione, sapendo che con ciò non si supera un obbligo di facciata di etica scientifica, ma si avvia un laborioso tentativo volto a modificare il comune sentire, generalmente negativo, verso una procedura di autopsia, sia pure parziale (rapida estrazione del solo encefalo dalla scatola cranica). L’interlocuzione sarà certo difficile, e sempre al limite dell’impietosa provocazione. L’obiettivo intermedio è quello di conseguire in tempi ragionevolmente brevi i numeri del censimento avviato dall’Associazione dei potenziali consensi di donazione, dei ricercatori fattivamente interessati a questi quesiti scientifici, delle istituzioni in grado di compiere le indagini istopatologiche ed istochimiche, infine, quello di aggiornare sul Notiziario man mano i dati al riguardo, illustrando il quadro italiano comparativamente a quelli esteri, nonché cercando di attivare un dibattito sulla donazione dell’encefalo tra le famiglie di potenziali donatori e ricercatori.
Tuttavia, allo stato attuale il mero consenso dei congiunti relativo ad un paziente che defunge a casa propria o presso un’istituzione non dotata di sala autoptica, non risolverebbe il bisogno dei ricercatori italiani, quello stesso già discretamente soddisfatto in altre nazioni quali l’Olanda, la Gran Bretagna, la Svezia e poche altre. In Italia, infatti, una salma non può essere traslata altrove che al cimitero (sempre che non siano state sollevate incertezze causali di rilevanza medico-lgale sulla natura del decesso); ne viene che una salma non può essere transitoriamente avviata alle strutture autoptiche di un grande ospedale. Esiste, dunque, preliminarmente un problema di modificazione delle norme di polizia mortuaria e , di conseguenza, l’opportunità di avviare un dibattito con le autorità sanitarie nazionali, in primis con il Ministro della Sanità.
Non ho difficoltà a comprendere che non è decisione da poco per un’associazione di malattia affrontare sul suo Notiziario, visto che esso è soprattutto strumento di contatto con le famiglie dei pazienti, una proposta che, una volta che venisse approvata, impegnerebbe un certo numero di essi a superare psicologicamente, in un contesto etico di totale disinteresse, gli aspetti macabri, reali ed immaginari, connessi alla messa a disposizione dell’encefalo di un congiunto appena deceduto. Proporre un consenso di donazione cerebrale (a paziente vivente, possibilmente in una fase precoce della malattia, quella più fruttifera di ripetute indagini cliniche incruente) equivale a suggerire, con la molta o poca autorità dell’Associazione, che ogni sentimento di speranza miracolistica per vari gradi di potenziale guarigione del deterioramento cognitivo ha da essere radicalmente rimosso. Infine, dare il consenso alla donazione porterebbe i congiunti a compromettersi così seriamente con la ricerca scientifica - prima, in vita, con il consenso, poi, al momento del decesso, con l’autopsia - da porli in palese conflitto con il comune sentire indotto dalla cultura cattolica, correntemente assunto in quest’area geografica come "naturale". La cultura cattolica ha, infatti, sempre cercato di imbrigliare il deliberato perseguimento di obiettivi e conoscenze razionali quasi che esse fossero (e probabilmente ha visto giusto: esse effettivamente lo sono) antagoniste della cultura della speranza e del miracolo. E’ d’altronde anche vero che quest’ultima visione del mondo finisce ad avere ben poco corso a fronte della conclusione di un iter di sofferenza interminabilmente lungo tra diagnosi e morte di una persona caduta preda di una demenza degenerativa: ma la razionalità dell’evidenza epidemiologica non sembra estinguere la compulsione all’irrazionale, al "credo quia absurdum’.
Ti sono grato dell’ospitalità integrale di questa perorazione, sempre che tu me la conceda. In caso contrario, insisterò maggiormente per comprometterti il più possibile in una battaglia molto laica e illuminista, che, oltre tutto, renderebbe più solidale l’agire dei familiari e quello dei ricercatori. Un indipendente e parallelo commento editoriale della Federazione Alzheimer Italia potrebbe permettere una più attenta focalizzazione della proposta qui avanzata.

Hans Spinnler

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